«Prigioniere divine»: così Proust chiama le incantevoli note della «piccola frase» della sonata composta da Vinteuil. Ardito ossimoro: in quanto fatte di tempo, del tempo esse sono prigioniere e quindi condannate alla finitezza; ma poiché restituiscono nella loro aurorale integrità ricordi che si riteneva perduti, ecco rivelarsi una natura divina il cui stigma è l’immortalità: tutto è perduto, tutto è salvato. Ma chi si nasconde dietro la maschera di questo prezioso sintagma se non le sirene? E in quale altro luogo se non nel teatro d’opera esse esercitano con altrettanta potenza il loro incanto? Avrebbe mai scritto Proust quelle pagine se anch’egli non avesse udito il medesimo, fatale invito rivolto in un tempo immemorabile a un Greco che stava facendo ritorno alla sua isola dopo dieci anni di guerra? Questo dicono le sirene: che il più bello dei mari è quello che dobbiamo ancora navigare, se solo abbiamo l’ardimento di attraversare luoghi che appaiono in-transitabili, cercando un senso proprio nella loro intransitabilità.
Il teatro d’opera è forse uno degli ultimi luoghi – in questo volume esplorato da una molteplicità di autori: musicisti, musicologi, giuristi, filosofi, critici letterari – dove le «favole antiche» continuano a essere narrate e riscritte in un gioco inesauribile di fughe, variazioni, contrappunti. In nessun altro luogo, infatti, il destino – condizione decretata una volta per tutte – si riveste di novitas ogniqualvolta si apre il sipario, perché diverse saranno la regia, la danza, le scenografie, le luci, i costumi, la recitazione e, sopra ogni altra cosa, l’interpretazione dei cantanti. Da qui l’inesauribile seduzione esercitata sullo spettatore; da qui anche l’irresistibile tháuma – meraviglia che sgomenta, stupore che rischia di annichilire – che avvince quest’ultimo; da qui, forse, l’ultimo incantesimo che ancora può catturarci.
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