Mies van der Rohe, citando Tommaso D’Aquino, disse che l’opera di architettura e la città, espressioni della volontà di un’epoca, si ergono a simbolo del loro tempo.
Oggi, frammentati, destabilizzati e allontanati, viviamo il tempo di una pandemia che ci chiama a una simbolica ricostruzione: atto, dopo ogni evento distruttivo e catastrofico, che non è solo un bisogno, ma anche una necessità affinché si possa continuare a riconoscersi all’interno della dimensione umana.
La casa – al tempo stesso domestica e inospitale, organizzata per difendere, garantire e consolare – è espressione del riposo e del disagio, nascosto e protetto. Da Palladio a Schinkel, da Loos a Mies, la casa cristallizzata e monumentale, che Eisenman e Gehry aggrediscono e destabilizzano sul piano strutturale e semantico, rimane un’icona straordinariamente rappresentativa dell’architettura. L’agglomerazione urbana che caratterizza le periferie della città contemporanea e il progressivo spopolamento dei centri storici sono la forma maggiormente rappresentativa del disagio di abitare, che è la più terribile e temibile forma del disagio sociale, acutizzato oggi dalla rivoluzione digitale.
In termini di “contaminazione” e “modificazione”, si presenta oggi la sfida di progettare la ricostruzione della città, per ridare un ruolo autentico e nuovo a una vecchia gestione autoreferenziale, definita democratica, delle nostre città e della vita che in esse si svolge.
Questo nuovo numero della rivista affronta questi temi attraverso l’analisi dei progetti di Alberto Ferlenga per le piazze di Castiglione delle Stiviere e per la scuola di Mirandola.